lunes, 16 de septiembre de 2013

"La paranoia dello spazio protetto". Entrevista a Alessandro Dal Lago.

 
 
Riconoscere ai migranti diritti umani e civili totali, pari ai nostri
 
 

   Sindrome di Johannesburg. Quella che avvertono i ricchi, tutti i ricchi, del mondo, quelli che si spostano e si muovono nella città globale, ma che sentono la fortezza del loro benessere assediata e insidiata dai colpi d'ariete dei «migranti», siano essi clandestini, profughi, rifugiati, uomini in cerca di fortuna. Ai primi, nel sistema degli scambi globali, è concesso di esportare McDonald's, hamburger, persino bombe e guerre. Ai secondi, non è dato di nutrire pulsioni desideri, di venire a conquistare e provare la vita la dove la ricchezza c'è. Sono 120 milioni, in tutto il mondo, circa il
2% della popolazione mondiale, i migranti, una percentuale che non è cambiata molto rispetto agli anni Settanta. Cresce invece la loro evidenza, pericolosità sociale, segregazione, l'allarme diffuso sui loro movimenti e sulle loro pretese, perché muta la loro rappresentazione attraverso i massmedia e monta nell'immaginario collettivo la paura del nemico. 
   Si demonizza in loro lo straniero, colui che vuole invadere il tuo territorio.

         «Eppure viviamo tutti una condizione di nomadi e di migranti.
         Solo che alcuni hanno il passaporto per girare il mondo.
         Altri portano le stigmate di questa loro diversità»,  osserva Alessandro Dal Lago.

       «Il migrante è qualcuno che non ha libertà di movimento, anche quando questo    
         movimento vorrebbe praticarlo a fini parziali, magari per migliorare la vita, per 
        procurarsi un gruzzoletto».

Il sociologo, oggi preside della facoltà di scienze della formazione a Genova, al fenomeno ha dedicato molti anni delle sue ricerche compulsando non solo la letteratura ma intervistando testimoni diretti, acquisendo documentazione, analizzando per tre anni cinque quotidiani nazionali («Corriere della Sera, «la Repubblica», «La Stampa», «il Giornale», «il Manifesto»). Ne è nato per Feltrinelli il volume «Non-persone», l'analisi del percorso attraverso il quale la società esclude i migranti dal diritto dei diritti, la cittadinanza, presupposto stesso di ogni altri diritto, della stessa inclusione nell'«umanità», forma e sostanza - oggi - per fregiare l'individuo dell'etichetta di «persona».   

Dal Lago, tutto è riconducibile alla sindrome della fortezza?   
Sì. E' del tutto irrazionale nelle sue manifestazioni, ma l'idea si fonda sulla paura che noi, occidentali ricchi, abituati ai consumi, abbiamo che il benessere sia minacciato dal contatto con i migranti. L'aspetto irrazionale e paranoico è che ci tolgano il lavoro, che facciano violenza, che prendano il nostro spazio.   

Solo questo?   
No. C'è anche un estremo realismo, che attiene alle dinamiche del capitalismo globale. La gente non se ne rende conto. Un imprenditore paga un lavoratore 2-3 milioni al mese al lordo dei contributi, dove in Albania basterebbero cifre irrisorie. E questo permette all'imprenditore di realizzare forti profitti, e all'operaio di sopravvivere. Ma al tempo stesso la condizione perché questo esista è che l'albanese resti inchiodato alla
sua terra.   

Il migrante è il clandestino, il profugo, colui che va via dalla sua terra?   
Le figure si intrecciano. Si può emigrare per tanti motivi, per sfuggire a un'oppressione, per guadagnarsi da vivere, mi sembra difficile stabilire delle differenze. L'elemento comune è che provengono quasi tutti da paesi dispotici. E' una finzione giuridica quella che accetta a parole i profughi e invece sbatte fuori i clandestini perché migranti. Fino al 19 marzo 1997 quelli che scappavano dall'Albania erano profughi. Quando l'Italia ha capito che avrebbe dovuto accettare migliaia di profughi, un decreto legge li ha trasformati immediatamente in clandestini.   

Questa paura per colui che arriva da una terra diversa è sempre esistita. In
cosa cambia oggi?   
E' sempre esistita ma si va specificando nella storia. Non esiste il nemico in assoluto. Esistono invece forme paranoiche di protezione degli spazi sociali. In gioco c'è il fatto che, se il mondo ha da essere globale - e lo è per certi versi - allora dobbiamo accettarne le conseguenze, e quindi anche riconoscere i diritti a persone che vogliono vivere tra noi per lavorare. So bene, questo pone enormi problemi. Possiamo persino immaginare, allora, che un paese ponga dei problemi di limitazione. E tuttavia appare sconvolgente come questa paranoia sociale sia condivisa da tutti i settori politici e sociali del paese.    

C'è un grado diverso di opposizione al migrante tra i popoli del Sud o del
Nord?   
La linea è frastagliata ma va al di là della divisione Occidente-Terzo mondo. E' una questione di opposizione tra ricchezza e povertà, tra chi controlla le risorse e può accettare migranti e di chi si trova nella necessità di muoversi.   

Eppure oggi la situazione sembra precipitata...   
E' precipitata perché è morta l'illusione dell'universalismo, creato apparentemente nel dopoguerra. Esistono nuove forme di aggregazione politico-economica e militare che stanno spezzando questo guscio apparente.
Non si capisce bene cosa sia piú l'Occidente: Stati Uniti piú Nato, la Nato piú la Comunità europea, o che? Si stanno rimodellando i rapporti di forza nei confronti di un mondo che non è piú definito secondo i criteri tradizionali.   

Gli italiani sono piú escludenti degli altri popoli?   
Gli altri paesi europei hanno avuto a che fare con l'emigrazione da paesi con i quali avevano intrattenuti rapporti coloniali per molto tempo. Gli italiani, ultimi arrivati, appaiono i piú ingenui e, secondo me, anche piú duri perché ignari di tutta la questione. Abbiamo rimosso del tutto il nostro passato coloniale.   

Dobbiamo aprire le porte della fortezza, allora?   
Dobbiamo riconoscere ai migranti diritti umani totali, quindi civili e politici pari ai nostri, perché non si creino conflitti. Non valgono piú le considerazioni della ragionevolezza, tipo accettiamone pochi, diamo loro pochi diritti eccetera.
La via d'uscita è la totalità dell'assunzione della loro cittadinanza.

"VITA UMANA E PERSONA". Lección Magistral brindada por Roberto Esposito. Universidad del Salvador.


 
 
                1. Sulla copertina del numero di dicembre 2006 della rivista ‘Time’, tradizionalmente dedicata ai personaggi dell’anno, appare la foto di un computer aperto, con al posto del monitor una superficie riflettente come uno specchio, al cui centro compare, in lettere cubitali, il pronome ‘you’. In questo modo chiunque la guardi vede riflesso il proprio volto, promosso appunto a ‘person of the year’, come è assicurato più in alto.
                L’intenzione della rivista è quella di affermare, in questa maniera iperrealistica, il fatto che nella società contemporanea nessuno esercita maggiore influenza dell’utente di internet, con le sue foto, i suoi video, le sue dichiarazioni. Ma il messaggio, a un livello più profondo, si presta ad un’altra interpretazione meno scontata.
               Da un lato esso, dichiarandolo ‘persona dell’anno’, situa ogni lettore nello spazio di assoluta centralità finora riservato ad individui eccezionali. Dall’altro, nello stesso momento, lo inserisce in una serie potenzialmente infinita fino a farne sparire ogni connotato singolare. La sensazione è che, prestando ad ognuno la medesima ‘maschera’ della persona, finisca per farne il segno senza valore di una pura ripetizione.
               Del resto questo scambio di ruoli non è che la metafora di un processo ben più ampio e generale. Nella stagione in cui anche i partiti politici ambiscono a diventare ‘personali’ per produrre identificazione degli elettori con la figura del leader, qualsiasi gadget è venduto dalla pubblicità come massimamente ‘personalizzato’ – adatto alla personalità dell’acquirente e anzi destinato a metterla ancora più in risalto.
               Naturalmente anche in questo caso con il risultato di omologare i gusti del pubblico a modelli indifferenziati, di smarrire ogni connotato personale. Torna lo stesso paradosso: quanto più si cerca di privilegiare i caratteri inconfondibili della persona, tanto più si determina un effetto, opposto e speculare, di spersonalizzazione.
               Tale paradosso acquista un rilievo tanto maggiore allorché, come oggi accade, il riferimento normativo alla nozione di persona si estende a macchia d’olio a tutti gli ambiti della nostra esperienza. Dal linguaggio giuridico, che la considera l’unica in grado di dare forma all’imperativo dei diritti umani; alla politica, che l’ha da tempo sostituita al concetto, non sufficientemente universale, di cittadino; alla filosofia, che in essa ha trovato uno dei rari punti di tangenza tra la sua componente analitica e quella cosiddetta continentale.
                Prima ancora di interrogare l’antinomia cui essa dà luogo, fermiamoci su questo straordinario successo che fa della nozione di persona uno dei più fortunati lemmi del nostro lessico concettuale. Alla sua radice vi è intanto una non comune ricchezza semantica, dovuta alla sua triplice matrice di carattere teologico, giuridico e filosofico. Ma a questa prima ragione intrinseca, se ne aggiunge una seconda, di ordine storico, forse ancora più forte.
               Che il linguaggio della persona abbia conosciuto un momento di particolare incremento alla fine della seconda guerra mondiale, fino a divenire il perno della Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo del 1948, non può sorprendere. Esso reagiva al tentativo, messo in atto dal regime nazista, di ridurre l’essere umano alla sua nuda componente corporea, peraltro interpretata in chiave violentemente razziale.
                E’ a tale deriva mortifera che, nel secondo dopoguerra, si oppone la filosofia della persona. Contro una ideologia che aveva ridotto il corpo dell’uomo alla linea ereditaria del suo sangue, essa si propone di ricomporre l’unità della natura umana ribadendone il carattere irriducibilmente personale. Proprio tale riunificazione tra la vita del corpo e la vita della mente risultava, tuttavia, di difficile conseguimento.
               E infatti, l’obiettivo primo della Dichiarazione del 1948 è rimasto largamente disatteso per una larga parte della popolazione mondiale, ancora oggi esposta alla miseria, alla fame, alla morte. Senza mettere in questione l’impegno soggettivo degli estensori della Dichiarazione, credo che questa antinomia nasca dall’effetto di separazione e di esclusione implicito nella stessa nozione di persona.
              Per riconoscerlo è necessario risalire alle sue tre radici – teologica, giuridica e filosofica. Ciò che, nonostante l’ovvia differenza, tutte le accomuna in una medesima struttura logica è un intreccio contraddittorio di unità e separazione: nel senso che la definizione stessa di ciò che è personale, nel genere umano o nel singolo uomo, presuppone una zona non personale o meno che personale, da cui esso prende rilievo.
               Tale tendenza risulta chiara nella tradizione cristiana, la quale, sia con il dogma trinitario sia con quello della doppia natura di Cristo, da un lato colloca l’unità nel quadro della distinzione – nel primo caso tra le tre persone, nel secondo tra sostanze diverse di una stessa persona; dall’altro presuppone il primato dello spirito sul corpo. Se già nel mistero della Incarnazione le due nature – umana e divina – non possono certo stare sullo stesso piano, ciò è ancora più evidente quando si passa alla doppia realtà, fatta di anima e corpo, che costituisce per il Cristianesimo la vita dell’uomo.
               Per quanto il corpo non sia dichiarato in sé cattivo, perché parimenti creato da Dio, esso rappresenta pur sempre la nostra parte animale, in quanto tale sottomessa alla guida morale e razionale di quell’anima in cui si radica l’unico punto di contatto con la Persona divina. E’ per questo che Sant’Agostino può definire la necessità di provvedere ai bisogni del corpo una vera e propria “malattia”.
               Del resto non è un caso che il filosofo cattolico Jacques Maritain, tra gli estensori della Dichiarazione del ’48, definisca la persona “un tutto signore di se stesso e dei suoi atti” solamente se esercita un pieno dominio sulla sua “parte animale”. A rendere l’uomo persona è, insomma, il controllo e la padronanza che egli riesce ad avere sulla sua dimensione corporea di carattere animale.
               E’ difficile misurare con precisione gli influssi, probabilmente reciproci, che, in ordine al concetto di persona, legano le prime formulazioni dogmatiche cristiane e la concezione giuridica romana. Sta di fatto che il dualismo teologico tra anima e corpo  (a sua volta di derivazione platonica) assume un senso ancora più netto nella distinzione, presupposta all’intero diritto romano, tra uomo e persona. Non soltanto il termine persona non coincide a Roma con il termine homo (usato in prevalenza per indicare lo schiavo), ma costituisce il dispositivo destinato a dividere il genere umano in categorie distinte e rigidamente subordinate le une alle altre.
               La summa divisio de iure personarum – fissata dal giurista Gaio – da un lato include nell’orizzonte della persona ogni tipo di uomo, compreso lo schiavo che tecnicamente viene assimilato al regime della cosa; dall’altro procede attraverso sdoppiamenti successivi – inizialmente tra servi e liberi, poi, all’interno di questi ultimi, tra gli uomini originariamente liberi e gli schiavi liberati – che hanno appunto il compito di separare gli esseri umani secondo una differenza gerarchica.
              All’interno di tale meccanismo giuridico – che unifica gli uomini attraverso la loro separazione – solo i patres, vale a dire coloro che sono definiti dal triplice stato di uomini liberi, di cittadini romani e di individui indipendenti da altri, risultano personae nel senso pieno del termine. Mentre tutti gli altri – situati in una scala di valore decrescente, che dalle mogli, ai figli, ai creditori arriva fino agli schiavi – si collocano in una zona intermedia, e continuamente oscillante, tra la persona e la non persona o, più seccamente, tra la persona e la cosa: res vocalis, strumento in grado di parlare, è definito, infatti, il servus.
               Ciò su cui va fissata l’attenzione, per penetrare a fondo il funzionamento di tale dispositivo, non è solo la distinzione che in questo modo si viene a determinare tra diversi tipi di esseri umani – alcuni posti in una condizione di massimo privilegio, altri schiacciati in un regime di assoluta dipendenza –, ma anche la relazione causale che passa tra l’una e l’altra situazione: per potere rientrare a pieno titolo nella categoria di persone, bisogna avere il possesso non solo dei propri averi, ma anche di alcuni esseri umani, ridotti nella dimensione della cosa.
               Che ciò valga persino per i figli – e dunque per ogni essere umano all’atto della sua nascita – su cui pesava il diritto di vita e di morte da parte del padre, autorizzato a venderlo, prestarlo, abbandonarlo, e anche ad ucciderlo, significa che nessuno a Roma possedeva per tutta la vita la qualifica di persona. Qualcuno poteva acquisirla, altri ne era per principio escluso, mentre la maggioranza transitava attraverso di essa, entrandone o uscendone a seconda del volere dei patres. 
               attraverso il dispositivo romano della persona, si rende chiaro non soltanto il ruolo di una certa figura giuridica, ma qualcosa che attiene al funzionamento generale del diritto: vale a dire la facoltà di includere attraverso l’esclusione. Per quanto possa essere allargata, la categoria di coloro che godono di un determinato diritto è definita solo dal contrasto con coloro che, non rientrandovi, ne sono esclusi. Qualora appartenesse a tutti – come per esempio una caratteristica biologica, il linguaggio o la capacità di camminare – un diritto non sarebbe tale, ma semplicemente un fatto che non richiede una specifica denominazione giuridica.
               Allo stesso modo, se la categoria di persona coincidesse con quella di essere umano, non ce ne sarebbe stato bisogno. Essa vale esattamente nella misura in cui non è applicabile a tutti – e anzi trova il suo senso precisamente nella differenza di principio tra quelli cui è, di volta in volta, attribuita e quelli cui non lo è, o, ad un certo punto, viene sottratta. Solo se esistono uomini e donne che non sono del tutto, o non sono affatto, considerati persone, altri lo potranno essere o diventare.
               Da questo punto di vista – per ritornare al paradosso di partenza – il processo di personalizzazione di alcuni coincide, guardato dall’altro lato dello specchio, con quello di spersonalizzazione o reificazione di altri. Persona, a Roma, è chi è in grado di ridurre altri nella condizione della cosa. Così come, in modo corrispondente, un uomo può essere considerato una cosa solo da parte di un altro proclamato persona.
               2. La prima, o comunque la più significativa, definizione del concetto di persona all’interno della tradizione filosofica la si deve a Severino Boezio, per il quale essa è “una sostanza individuale di carattere razionale”. In essa l’attributo di razionalità serve a ribadire la distanza dal corpo già posta sia dalla tradizione cristiana sia da quella romana: ciò che conta, della persona, è la sua dimensione mentale, non coincidente e superiore rispetto all’elemento biologico in cui essa è inserita.
               Ciò evidentemente implica un qualche rapporto della categoria di persona con quello che oggi chiamiamo ‘soggetto’. Ma questa connessione, piuttosto che sciogliere il paradosso della persona, tende ad accentuarlo. Per una lunghissima fase, durata sostanzialmente fino a Leibniz, la parola subiectum ha avuto un significato non diverso da ciò che oggi siamo soliti definire ‘oggetto’. Essa, a partire da Aristotele, designa, infatti, qualcosa come un supporto, o un sostrato, dotato di capacità recettiva: dunque l’esatto opposto di un agente di pensiero o di azione.
               Da questo punto di vista il soggetto, nel senso antico e medioevale, non solo non si oppone all’oggetto, ma è fin dall’inizio inteso nel senso di ‘soggetto a’, piuttosto che di ‘soggetto di’. Ora è precisamente questo il punto in cui la definizione filosofica di soggetto si incrocia con la concezione giuridica romana e anche con l’idea cristiana di subordinazione del corpo all’anima.
               Si tratta di quella dialettica, analiticamente elaborata soprattutto da Michel Foucault, tra soggettivazione ed assoggettamento che ci riporta per altra via a ciò che abbiamo definito il “dispositivo della persona”. Si può dire che, all’interno di ogni essere vivente, la persona sia il soggetto destinato ad assoggettare la parte di sé non fornita di caratteristiche razionali – vale a dire corporea o animale.
              Quando Cartesio contrappone res cogitans e res extensa, assimilando la prima alla sfera della mente e la seconda a quella del corpo, riproduce, pur da altra angolatura, il medesimo effetto di separazione e di subordinazione che abbiamo già individuato nella semantica teologica e giuridica della persona.
               A quel punto neanche il passaggio, attivato da Locke e portato a compimento da Hume, del concetto di persona dall’ambito della sostanza a quello della funzione, sarà in grado di modificare le cose. Che l’identità personale risieda nella mente, nella memoria o in una semplice autorappresentazione soggettiva, resta, ed anzi si accentua sempre più, la sua differenza qualitativa dal corpo in cui pure risulta installata.
               Il rapporto tra soggettività ed assoggettamento è reso del tutto trasparente da Hobbes – attraverso una decisiva trasposizione del dispositivo della persona sul terreno politico. Tale passaggio, orientato alla fondazione assoluta della sovranità, avviene lungo due traiettorie argomentative che ad un certo punto si incrociano in un medesimo effetto di separazione.
               La prima riguarda la relazione tra ‘persone naturali’ e ‘persone artificiali’. Mentre le prime sono quelle che si autorappresentano attraverso le proprie parole ed azioni, le seconde rappresentano azioni e parole di un altro soggetto, o anche di un’altra entità non umana. In questo modo non solo viene meno il rapporto che, all’interno del singolo essere umano, legava pur sempre il suo corpo fisico con la ‘maschera’ che indossava, vale a dire con la qualifica giuridica che gli era di volta in volta attribuita, ma è messo in discussione anche il carattere necessariamente umano della persona.
               Se, a costituire giuridicamente una persona non è altro che la sua funzione di rappresentanza, tale qualifica potrà essere riconosciuta anche ad associazioni collettive o ad enti di carattere non umano come un ponte, un ospedale o una chiesa. Da qui la scissione, ormai compiuta, nei confronti del corpo biologico, dal momento che il meccanismo rappresentativo consente, o meglio prevede, l’assenza materiale del soggetto rappresentato.
               Nonostante le ingenti novità apportate dalla concezione moderna del diritto naturale, la summa divisio romana tra persone e non persone sembra resistere ad ogni contraccolpo. Ancora nel 1772, a pochi anni da quella rivoluzione che proclamerà i diritti inalienabili del cittadino, Robert Joseph Pothier, nel suo Trattato sulle persone e sulle cose, distingue le persone in sei categorie, assegnando a ciascuna di esse determinate prerogative in base alla definizione del loro status, che va da quello dello schiavo fino a quello del nobile.
               Ma forse ancora più sorprendente, da questo punto vista, è il percorso della tradizione liberale. Sia per Locke che per Mill, la persona, non essendo, bensì avendo, un corpo, ne è l’unica proprietaria – autorizzata, dunque, a farne quel che crede. Torna il paradosso di partenza di un soggetto che può esprimere la propria qualità personale solo oggettivando se stesso – scomponendosi in un nucleo pienamente umano perché razionale, morale e spirituale e in una dimensione animale, simile alla cosa, esposta alla assoluta padronanza del primo.
               Il culmine di questa dialettica è riconoscibile in quella bioetica liberale che trova in autori come Peter Singer e Hugo Engelhardt i suoi massimi esponenti. Per entrambi non soltanto non tutti gli esseri umani sono persone – dal momento che parte di essi si situano in una scala discendente che va dalla quasi-persona come l’infante alla semi-persona come il vecchio, alla non-persona come il malato in stato vegetativo, all’anti-persona rappresentata dal folle; ma, quel che ancora più conta, tutte queste ultime sono esposte al diritto di vita e di morte da parte della persone che le hanno in custodia, in base a considerazioni sociali o economiche.
               3. Se sono questi gli esiti del paradigma personalista, il meno che se ne possa dire è che esso non è riuscito a saldare in un unico blocco di senso spirito e carne, ragione e corpo, diritto e vita. Malgrado l’impegno dei suoi tanti interpreti esso, nel momento stesso in cui predica la pari dignità di tutti gli essere umani, non è in grado di cancellare le soglie attraverso cui li divide. Può solo spostarle, o ridefinirle, in base a circostanze di carattere storico, politico, sociale.
               Tornando a oggi, si può dire che il lessico concettuale moderno, così potentemente imbevuto di categorie teologico-politiche, non è più in grado di sciogliere i nodi che da più parti si stringono intorno a noi. Il che non vuol dire rifiutarlo in blocco – e neanche nei suoi singoli termini, come appunto quello di persona. Ma inscriverli in un orizzonte a partire dal quale le sue contraddizioni vengano allo scoperto rendendo possibile, e necessaria, l’apertura di nuovi spazi di pensiero.
               Già Nietzsche aveva colto l’irreversibile declino di quel lessico rifiutandone le tradizionali dicotomie, a partire dalla scissione metafisica di anima e corpo. Sostenendo che la ragione, o l’anima, è parte integrante di un organismo che ha nel corpo la sua unica espressione, egli rompe frontalmente con il dispositivo della persona. Dopo due millenni di tradizione cristiana e romana è per lui impossibile continuare a scindere l’unità dell’essere vivente in due falde giustapposte, e sovrapposte, la prima di carattere spirituale e la seconda di genere animale.
               La seconda, potente, decostruzione del paradigma di persona si deve all’opera di Freud. Se esso si riconosce nel primato della dimensione razionale e volontaria del soggetto agente, è fin troppo evidente che il rilievo assegnato dal padre della psicoanalisi all’inconscio ne costituisce una confutazione radicale. Già il suo libro sulla Psicopatologia della vita quotidiana ruota interamente intorno alla dialettica tra persona e impersonale in una forma che fa dell’uno contemporaneamente il contenuto e la negazione dell’altra.
               La conclusione che Freud ne trae è l’individuazione di un fondo impersonale in ciò che siamo abituati a definire personalità in uno scambio vertiginoso tra identità ed alterità, proprietà ed estraneità. A mancare, propriamente, non è l’atto, ma colui – cioè l’intenzione cosciente – di chi lo pone in essere, sempre attraversata, e sfigurata, dal proprio negativo. La vita quotidiana è la non-persona presente ed operante nella persona – il flusso impersonale che ne stravolge la sagoma e ne strappa la maschera.
                Ma forse chi decostruisce con più decisione il paradigma di persona è Simone Weil. Quando ella, nella più assoluta solitudine, trova il coraggio di scrivere che “la nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali” coglie il punto centrale della questione: persona e diritto – nella formula seducente del diritto della persona – si saldano nella doppia presa di distanza dalla comunità degli uomini e dal corpo di ciascuno di essi.
               Ma la contestazione weiliana della categoria di persona non si ferma qui. Sostenere, come fa l’autrice, che “ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale” (ibid., p. 68) sembra inaugurare un discorso radicalmente nuovo, di cui al momento non possiamo che avvertire l’urgenza, pur senza essere ancora in grado di definirne i contorni. Ciò che andrebbe pensato, è un diritto, così portato a giustizia, non della persona, ma del corpo. Di tutti i corpi e di ogni corpo singolarmente preso.
               Soltanto se i diritti – che pomposamente quanto inutilmente vengono chiamati ‘umani’ – aderissero ai corpi, traendo da essi le proprie norme, non più di tipo trascendente, calate dall’alto, ma immanenti al movimento infinitamente molteplice della vita, soltanto in questo caso essi parlerebbero con la voce intransigente della giustizia.
               Se in ordine alla riflessione sulla giustizia il riferimento all’impersonale è ancora confinato nel rovescio della persona, da tempo costituisce l’orizzonte semantico della grande letteratura – come, del resto, di tutta l’arte contemporanea, dalla pittura non figurativa alla musica dodecafonica, al cinema.
               Da un certo momento in poi, situato tra la fine del XIX secolo e l’inizio di quello successivo, nessuno tra i personaggi del romanzo ha più la capacità, o l’intenzione, di dire ‘io’ – di parlare in prima persona. Già il primo, e più noto, dei personaggi ‘senza qualità’, vale a dire l’Ulrich di Musil, aveva sostenuto che “poiché le leggi sono la cosa più impersonale del mondo, la personalità non sarà ben presto che l’immaginario punto d’incontro dell’impersonale”.
               E’ noto cosa egli volesse dire: dal momento che è venuta meno, esplosa in mille frammenti, l’unità soggettiva delle persone – tanto che, a distanza di qualche anno, alle volte si è più simili a un altro che a se stessi – il mondo in cui ci muoviamo sfugge al nostro controllo e alla nostra capacità d’intervento per disporsi lungo linee imprevedibili nella loro origine e nel loro esito.
               Quanto a Kafka, poi, l’impersonale non è più un’opzione che si possa adottare, ma la forma generale all’interno della quale ogni scelta ci è inevitabilmente sottratta ed espropriata. E’ ciò che conferisce al racconto il carattere impenetrabile dell’assoluta oggettività, ponendo ogni personaggio – ormai non più definibile tale, perché privato di ogni frammento di soggettività – in un rapporto di non identificazione con se stesso.
               Se l’insieme della filosofia novecentesca non ha una profondità di sguardo paragonabile a quello della letteratura, pure, in almeno uno dei suoi filoni più innovativi, ne risulta produttivamente contaminata. Mi riferisco a quella linea che da Bergson, a Deleuze, passando per Merleau-Ponty, Simondon, Canguilhem e lo stesso Foucault, ha pensato l’esperienza umana non nel prisma trascendentale della coscienza individuale, ma nella densità indivisibile della vita.
               In ciascuno di essi ad essere in gioco è una critica radicale della categoria di persona e dell’effetto separante che essa inscrive nella configurazione dell’essere umano. E in tutti tale critica è condotta a partire dal paradigma di vita intesa nella sua dimensione specificamente biologica. Ma se in Deleuze la vita si rapporta solo a se stessa, al proprio piano d’immanenza, in Foucault essa è colta nella dialettica, di assoggettamento e di resistenza, nei confronti del potere.
               Mentre nel primo caso il punto di approdo è una sorta di affermazione filosofica della vita – ben più radicale delle filosofie della vita che hanno segnato i primi decenni del Novecento – nel secondo si delinea il profilo più acuto di ciò cui si è conferito il nome impegnativo di biopolitica.
               Al suo centro, ma anche al suo estremo, non vi può essere che una netta presa di distanza da quel dispositivo gerarchico ed escludente riconducibile ad ogni declinazione – teologica, giuridica, filosofica – della categoria di persona. Sia la nozione deleuziana di immanenza sia, quella, foucaultiana, di resistenza muovono in questa direzione: una vita che coincida fino all’ultimo con il suo semplice modo di essere, con il suo essere tale quale è – appunto ‘una vita’ singolare e impersonale – non può che resistere a qualsiasi potere, o sapere, ordinato a scinderla in due zone reciprocamente subordinate.
               Questo non vuol dire che tale vita non sia analizzabile dal sapere – fuori dal quale, del resto, essa resterebbe muta o indistinta – o irriducibile al potere. Ma in una forma capace di modificare, trasformandoli in base alle proprie esigenze, l’uno e l’altro. Producendo, a sua volta, nuovo sapere e nuovo potere in funzione della propria espansione quantitativa e qualitativa. Questa possibilità, ma potremmo ben dire questa necessità, si rende chiara nella doppia relazione che congiunge la vita al diritto da un lato e alla tecnica dall’altro. In nessuno caso il loro nodo può essere sciolto.
               Ciò cui una biopolitica finalmente affermativa può, e deve, puntare è, piuttosto, il rovesciamento del loro rapporto di forza. Non può essere il diritto – l’antico ius personarum – ad imporre dall’esterno e dall’alto le proprie leggi ad una vita separata da se stessa; ma la vita, nella sua realtà insieme corporea e immateriale, a fare delle proprie norme il riferimento costante di un diritto sempre più conforme ai bisogni di tutti e di ciascuno.
               Lo stesso vale per la tecnica – diventata in questo terzo millennio l’interlocutore più diretto dei nostri corpi: della loro nascita, della loro salute, della loro morte. Contro una tradizione novecentesca che ha visto in essa il rischio estremo da cui salvare la specificità dell’essere umano – coprendolo con l’enigmatica maschera della persona – occorre renderla funzionale a una nuova alleanza tra vita dell’individuo e vita della specie.