1. Il movimento globale, da Seattle in poi, somiglia a una pila voltaica dal funzionamento dimezzato: accumula senza posa energia, ma non sa come e dove scaricarla. Si è dinanzi a una mirabile tesaurizzazione cui non corrispondono, per il momento, investimenti adeguati. O a un nuovo apparecchio tecnologico, potente e raffinato, del quale però si ignorano le istruzioni per l'uso. La dimensione simbolico-mediatica (zone rosse da violare di un palmo, forum internazionali come autoscatti polaroid della "nuova specie" in via di formazione, ecc.) è stata, insieme, occasione propizia e limite. Per un verso ha garantito l'accumulazione di energia, per l'altro ha impedito, o differito all'infinito, la sua applicazione. Ogni attivista ne è consapevole: il movimento globale non non riesce ancora a incidere – intendo: incidere con il garbo di un acido corrosivo - sull'attuale accumulazione capitalistica. Non ha messo a fuoco, cioè, quell'insieme di forme di lotta capaci di rovesciare in potenza politica sovversiva la condizione del lavoro precario, intermittente, atipico. Da dove nasce la difficoltà? Perché il saggio del profitto, ma anche il funzionamento dei poteri costituiti, non sono stati turbati più di tanto da tre anni di disordine sotto il cielo? A che cosa è dovuto questo paradossale "doppio vincolo", in base al quale l'ambito simbolico-comunicativo è, insieme, autentica molla propulsiva e fonte di paralisi?
L'impasse che attanaglia il movimento globale scaturisce dalla sua inerenza agli attuali rapporti di produzione. Non dalla sua estraneità o marginalità, come reputano taluni.
Il movimento è l'interfaccia conflittuale del processo lavorativo postfordista. Proprio per questo (non malgrado questo) esso si presenta sulla scena pubblica come un movimento etico. Mi spiego. La produzione capitalistica contemporanea mobilita a proprio vantaggio tutte le attitudini che contraddistinguono la nostra specie: pensiero astratto, linguaggio, immaginazione, affetti, gusti estetici ecc. Da quindici anni a questa parte si è detto e ripetuto, secondo me con buone ragioni, che il postfordismo mette al lavoro la vita in quanto tale. Formula semplificatoria, d'accordo: ma teniamoci a essa, dando per scontate analisi più dettagliate. Ora, se è vero che la produzione postfordista si appropria della "vita", ossia dell'insieme di facoltà specificamente umane, è abbastanza ovvio che l'insubordinazione nei suoi confronti si appunti su questo medesimo dato di fatto. Alla vita inclusa nella produzione flessibile viene contrapposta l'istanza di una "buona vita". E la ricerca della "buona vita" è, per l'appunto, il tema dell'etica.
Ecco la difficoltà e, insieme, la sfida davvero interessante. Il primato dell'etica è il frutto diretto dei rapporti di produzione materiali. Ma questo primato sembra, a tutta prima, allontanare da ciò che pure lo ha provocato. Un movimento etico stenta a interferire con il modo in cui oggi si forma il plusvalore. La forza-lavoro che del postfordismo globalizzato è il cuore - precari, flessibili, frontalieri tra occupazione e disoccupazione – difende alcuni principi generalissimi concernenti la "condizione umana": libertà di linguaggio, condivisione di quel bene comune che è la conoscenza, pace, salvaguardia dell'ambiente naturale, giustizia e solidarietà, aspirazione a una sfera pubblica in cui sia valorizzata l'unicità e l'irripetibilità di ogni singola esistenza. L'istanza etica, che pure mette radici nella giornata lavorativa sociale, sorvola quest'ultima ad alta quota, senza ancora alterare i rapporti di forza che vigono al suo interno.
Sbaglia chi diffida della carica etica del movimento, rimbrottandolo di trascurare la lotta di classe contro lo sfruttamento. Ma sbaglia anche, per motivi speculari, chi si compiace di questa carica etica ritenendo che essa metta finalmente fuori gioco categorie quali lo "sfruttamento" e la "lotta di classe". In entrambi i casi, ci si lascia sfuggire la questione decisiva: il nesso polemico tra istanza della "buona vita" (incarnatasi a Genova e Porto Alegre) e vita messa al lavoro (fulcro dell'impresa postfordista). Per brevità, chiamo intellettualità di massa le diverse figure sociali che convergono nel movimento globale: migranti, precari, lavoratori della comunicazione, operai della "qualità totale". E' tanto facile, quanto però fuorviante, dire: l'intellettualità di massa è una categoria economico-sociologica tra le altre, che rimpiazza linearmente quelle utilizzate in epoche precedenti (operaio professionale, operaio dequalificato ecc.). Ma è altrettanto facile e fuorviante dire: l'intellettualità di massa travalica l'economia e la sociologia, essendo definita piuttosto da costellazioni culturali e disposizioni etiche. La faccenda è più complicata. L'intellettualità di massa è, oggi, l'asse centrale dell'accumulazione capitalistica: dunque ha una straordinaria rilevanza economico-sociologica. Ma è l'asse centrale dell'accumulazione capitalistica proprio perché le sue caratteristiche salienti possono essere descritte solo in termini etico-culturali, come insieme differenziato di forme di vita. In breve: l'intellettualità di massa sta al centro dell'economia postfordista esattamente perché il suo modo di essere sfugge ai concetti canonici dell'economia politica. E' questo il paradosso che spiega la centralità, ora propizia ora paralizzante, del terreno simbolico-comunicativo su cui si è attestato il movimento.
2. Ricordiamoci delle due celebri definizioni aristoteliche dell'Homo sapiens: "animale che ha linguaggio" e "animale politico". Animale che ha linguaggio: il discorso verbale, parte integrante della nostra costituzione biologica, qualifica ogni sorta di affetti e percezioni. Animale politico: carattere transindividuale (o, se si preferisce, pubblico) della mente umana, sua capacità di interagire, cooperare, adattarsi al possibile e all'imprevisto. Ebbene, a me pare che le due antiche definizioni sintetizzino bene ciò che si deve intendere per vita-messa-al-lavoro. Le effettive doti professionali (si fa per dire) richieste al lavoratore postfordista, ossia all'"uomo flessibile", consistono nella facoltà di significare/comunicare e nella facoltà di (inter)agire. Il movimento globale, in quanto movimento della "buona vita", ha cercato di riscattare queste facoltà basilari, dando loro una forma tutt'affatto diversa da quella che prendono sotto il comando d'impresa. Niente di troppo diverso da ciò che, in altri tempi e con altro gergo, si sarebbe chiamato "riappropriazione delle forze produttive".
Il movimento globale parla e agisce in proprio, senza vincoli eteronomi. Ma in che cosa consiste, più di preciso, questo parlagire, ossia il fitto intreccio di linguaggio e prassi che caratterizza la defezione in corso dai poteri costituiti? E soprattutto: a quali condizioni il parlagire risulta efficace, ossia modifica la situazione circostante? In quali casi, invece, esso si limita a mordere l'aria? E' forse utile, a questo proposito, un richiamo alla teoria degli atti linguistici, elaborata dal filosofo inglese John L. Austin.
In un libro famoso, titolato Come fare cose con le parole, Austin analizza quegli enunciati il cui solo proferimento basta a compiere azioni socialmente rilevanti. Azioni non meno concrete e cariche di conseguenze di un bacio o di una operazione in borsa. Ma azioni che non sarebbe possibile effettuare se non parlando. Quando dico "Battezzo Luca questo bambino", o "Giuro che verrò a Roma", o "Scommetto un euro che l'Inter vincerà lo scudetto", o "Ti perdono", non descrivo un'azione (un battesimo, un giuramento ecc.), ma la eseguo. Non parlo di ciò che faccio, ma faccio qualcosa parlando. Questi enunciati, che Austin chiama performativi, sono frammenti di prassi. Con essi non ci si limita a formulare propositi, programmi, obiettivi, ma, se tutto funziona a dovere, li si realizza nel momento stesso in cui li si enuncia. I performativi sono autoreferenziali. Si tratta però di un autoriferimento anomalo, niente affatto ozioso: l'enunciato si riferisce a se stesso, ma, si badi, a se stesso in quanto azione in via di compimento (non a se stesso come semplice significato verbale). Le parole "Battezzo questo bimbo Luca" designano lo stato di cose che proprio esse stanno introducendo nel mondo. Si ha, qui, un circolo virtuoso tra dire e fare.
I performativi studiati da Austin mostrano col massimo nitore non solo la parentela, ma addirittura l'identità tra le due definizioni aristoteliche dell'uomo. Mostrano, cioè, che il linguaggio è, sì, un organo biologico, ma, ecco il punto, l'organo biologico della prassi pubblica. L'animale che ha linguaggio è di per sé un animale politico: agisce parlando, parlagisce per l'appunto. Gli enunciati performativi, non diversamente dall'azione politica in generale, implicano l'esposizione di sé agli occhi degli altri. Non possono essere pensati in silenzio, o borbottati stenograficamente: per risultare efficaci, frasi come "Scommetto che…", "Ti saluto", "Battezzo…", esigono una vocalizzazione piena e adeguata, così da situarsi in quella terra di tutti e di nessuno che è la sfera pubblica. Un performativo non percettibile equivarrebbe a uno sciopero soltanto immaginato.
Il movimento globale, in quanto movimento etico o della "buona vita", è un movimento performativo. Al pari di un battesimo o di una scommessa, molte sue asserzioni creano l'evento cui si riferiscono. Chi dice "la seduta è aperta", fa una cosa con le parole, ossia dà realmente inizio a un dibattito. Lo stesso vale, a certe condizioni, per chi dice "diserzione" o "no-copyright". Non voglio affatto sostenere che le iniziative del movimento globale consistano essenzialmente in enunciazioni verbali. Il punto è un altro. Le iniziative di questo movimento, mute o loquaci che siano, non sono mezzi in vista di un fine, ma esemplificano in se stesse, nella loro concreta attuazione, forme di vita alternative rispetto a quelle vigenti. Esecuzione e risultato tendono a coincidere: per questo parlo di performatività. Performativo è un movimento che parlagisce in modo da appropriarsi dell'obiettivo e da sviluppare nei fatti una cooperazione sociale in rotta di collisione con l'ordine produttivo postfordista. E' ben vero che il parlagire performativo ha qualcosa di simbolico-rituale: ma, in tal caso, "simbolico" non è una parolaccia, dato che indica un alto grado di operatività.
Hannah Arendt, in Vita activa, mette in risalto due tratti caratteristici della prassi politica: cominciare qualcosa di nuovo, non prescritto da alcuna catena causale; mostrare sé agli altri uomini. A suo giudizio, l'incipit contingente e inatteso, simile a una seconda nascita, costituisce l'azione in senso stretto; l'esposizione di sé si radica, invece, nel discorso con cui l'agente rende conto di quel che fa. I due lati della prassi politica – nuovo inizio e presa di parola – si implicano a vicenda: "L'azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l'attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se nello stesso tempo sa pronunciare delle parole. L'azione che egli inizia è rivelata agli altri uomini dalla parola, e anche se il suo gesto può essere percepito nella sua nuda apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l'espressione verbale mediante la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, che ha fatto o che intende fare". Nonostante il loro stretto intreccio, tra dire e fare sussiste ancora una residua esternità. L'azione è convalidata dal discorso, senza però scaturirne. E il discorso, dal canto suo, serve a narrare o rivendicare l'azione, ma non ne è il perno. Questa esternità viene meno, tuttavia, allorché Arendt menziona due azioni politiche esemplari: la promessa e il perdono. La promessa è il modo in cui gli uomini che agiscono nella sfera pubblica cercano di attenuare l'imprevedibilità degli eventi futuri. Il perdono pone parziale rimedio alla irreversibilità del passato. Ora, tanto la promessa che il perdono consistono in due enunciati performativi: nient'altro che parole con le quali, però, si fanno cose. L'inizio di qualcosa di nuovo e il discorso verbale non sono più solo complementari, ma del tutto indiscernibili. Il movimento globale fa sua questa indiscernibilità, ovvero sperimenta molteplici equivalenti della promessa e del perdono.
3. La teoria degli atti linguistici, se per un verso contribuisce a spiegare la predilezione del movimento globale per l'ambito simbolico-comunicativo, per l'altro fornisce anche qualche indicazione non peregrina sui tipici guai (illusioni, paralisi ecc.) in cui si può incorrere all'interno di questo stesso ambito.
Riassumo in fretta il punto saliente. Secondo Austin, i performativi non sono veri o falsi, giacché non descrivono un fatto, ma lo istituiscono ex novo. Né veri né falsi, essi possono però riuscire o fallire. Come accade a ogni azione, del resto. Austin chiama infelice un performativo che non realizza alcunché. Vi sono diversi tipi di "infelicità", ossia diverse forme di fallimento del parlagire. Mi limito, qui, a considerare quelle che riguardano più da vicino le pratiche performative del movimento globale.
Un performativo pecca di vacuità (stando sempre alla terminologia di Austin) qualora sia inserito in una poesia o pronunciato da un attore sul palcoscenico. E' ovvio che dicendo "Giuro che domani verrò a Roma" come battuta di un copione teatrale, non eseguo l'azione di giurare, ma mi limito a menzionarla o recitarla. La performatività del movimento si è ridotta, talvolta, a citazione. Il parlagire è vacuo se posto tra virgolette.
Un altro malanno dei performativi è l'abuso. Se io, che prete non sono, dico "Battezzo questo bambino Luca", non combino nulla. Molto spesso l'efficacia del performativo dipende da ruoli istituzionali ben definiti o da prerogative giuridiche. E' il presidente del senato, e solo lui, che può dire efficacemente "La seduta è aperta". Il movimento globale è stato tentato, in qualche caso, dal fare come se fosse nei panni della Commissione europea o dell'Onu o della Corte di Cassazione (sia pure, com'è ovvio, dando un segno suo proprio al funzionamento di tali organismi). Ma la mimesi di ruoli istituzionali e prerogative giuridiche è sbagliata e paralizzante: sbagliata, perché occorrerebbe semmai revocare in dubbio questi ruoli e prerogative; paralizzante, perché il parlagire risulta inefficace. Nel migliore dei casi, l'abuso ripiega su una innocua (teatrale, citatoria) vacuità.
Vi sono, infine, i colpi a vuoto. Se dico "Prendo questa donna come mia legittima sposa" in assenza dell'amato bene, è ovvio che non celebro alcun matrimonio. Allo stesso modo, se dico "Ti saluto" a un signore lontano due chilometri, non compio realmente l'azione di salutare. A minare la performatività è, qui, una deficienza contestuale. Sono le circostanze materiali a essere inadeguate. E' questo il tipo di "infelicità" più interessante per riflettere sulle difficoltà del movimento globale. Parlagire tra virgolette, o parlagire attribuendosi abusivamente ruoli istituzionali, è un errore. Il colpo a vuoto è invece qualcosa di inevitabile (e perfino di istruttivo) per una prassi politica intenzionata a delineare, mediante approssimazioni successive, nuove abitudini collettive. La performatività del movimento, né teatrale né giuridica, mira a produrre esempi politicamente riproducibili. Ma esemplificare i modi in cui l'istanza della "buona vita" può elidere la vita-messa-al-lavoro (intaccando così il saggio del profitto e il comando d'impresa) implica un procedimento per prova ed errore, ossia un certo numero di colpi a vuoto.
jueves, 3 de enero de 2008
"Un movimento performativo" per Paolo Virno
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"The Age of Uncertainty " for Oleg Kireev
The new year came to Russia along with the mass protests uncomparably stronger than anything we have seen since very 1993. An immediate reason was a Summer Duma decision about what had been called "monetarization of privileges" (or "benefits") - i.e. conversion of privileges concerning free medicine, transport etc. into money. According to the former Soviet order, many social groups did have certain kinds of privileges, but here they were mostly those of pensioners - i.e. of an extremely disregarded and disadapted group of a society. The trick about the privileges was that they got monetarized (a word everyone had learnt since these months), converted into money in such a way which was quite close to cancelling them; for an example, a free medicine was equalized to approximately 1.000 rubles (28 EUR) monthly. When the law was passing, there were already some protests, but not that much. While it was only a paper, people waited. But at January, 1 they started to demand payment from old people in the public transport, and the rage grew. Moreover: in a small unnoticeable line of the bill it was added that these are local authorities who are responsible for the payments, what meant full devastation: local authorities are ever off money, with quite few exceptions (like Moscow). In reality that all meant: first, cancelling of privileges for all country; second, saving some rest of privilieges for Moscow, the richest and the most explosive city, thus deepening the gap between capital and province. The humiliation was even harder because quite many of pensioners are World War II veterans who live last years of their life. But from the other side, these pensioners are more socially involved and engaged, because they keep a socially constructive spirit of socialism (whatever to think about it), and that was proven many times by their participation in the Red opposition.
These two qualities gave an explosive synthesis. At January, 11 the crowd of old people in the far Moscow suburbs started a blockade of a highway leading to capital. Militsia felt unsure to offend them too aggressively, and the triggered reaction started. More and more cities, towns and villages joined a maraphon. If you open http://www.skaji.net (means "Say no!") you will see a map of Russia with flags marking multiple points of monetarization protests. Marginals from other social classes, some students, some professors, some protesters-by-profession started to happen there too. The solidarity appeared in the air, especially after some protesters showed up with orange flags. (For many of us, the Ukrainian revolution was considered a sign of people revolting against the power whatever it is, and especially against an omnipresent Kremlin.) This is how pensioners and veterans showed a path to the rest of a society: the most remarkable for me was an internet image of an old woman holding the banner: "Putin is an enemy worse than Hitler!"
Lets look at that from a more theoretical point of view. As Manuel Castells notes, under the informational paradigm the structure of a society tends to individualization: individual labour contracts, individual working schedule etc. This is one of decisive conditions for the phenomenon of a precarity, when an individual, the employee finds him(her)self unmighty before the all-powerful market forces, the employers. Solidarity is not in agenda, for everything is "your own business". As an arena of a dash capitalism invasion, Russia had experienced that phenomenon maybe twice harder than Western countries. Atomization grows, enforcening alienation. There're no clear class stratifications, no group interests expressed, no stability, only an uncertainty - both on personal and social level. Boris Kagarlitsky had once noted that in the beginning of 90s all the post-Soviet population was changing its formerly firm status for an uncertain one: many factories were paying their employees goods instead of money, forcing them to sell them and thus to become one day worker, the next day seller, etc. In one place they were giving coffins. Together with an invasion of a consumption society, this had created a disbalance in minds. While the luckiest white collars in capitals have found jobs and agreed to live under capitalism, millions of folks in Russia and former republics just silenced, because they had no explanation to what's happening. And now just pensioners, who had at least common age and Soviet past as grounds of solidarity, plus a serious risk of being left to die without anything, stood up and triggered a wave of protest. Government renounced, gave many excuses and established some really complicated and weird model of compensating the monetarized privilieges from federal budget.
The next step is to be taken. The next target group is students. Under the consolidated Cops & Militaries attack, an another predatory measure had been taken at 2004: a cancellation of army service delays. The logic of militaries is, those students who study in the Universities do it with an only aim: to avoid military service. Army has critical lack of youngsters ready to serve. Noone wants to go to Tchetchnya or to experience cruelties of army orders - with regular news about deaths, sadisms of the older soldiers towards the younger ones etc. The military officials say, last years they get no more than 14% of a needed quantity in a call for service, and the youngsters avoid it by entering Universities. So they decided to cancel all exit options and bring students to arms.
Students are not that unified as pensioners. Actually, noone knows what is today Russian "youth". Is it teenage ravers or hip-hoppers, the first Russian generation grown up on MTV? Are they blinded with technological rush, media brainwashing, capitalist hysteria? Or not? That is the question. But for sure, if there're sources of social consciousness between the youth, they have to be found in the Universities. During the Spring 2004 action against road militsia, when drivers were raising a white kerchief on their cars as a sign of protest, the cars of that kind could hardly be noticed between the others throughout Moscow, but in the parkings of a Moscow State University there was majority of such cars. Students have to express themselves, they have to stand for their interests at least to show that they are a certain group of people, not an atomized quantity of elements lacking identification.
That concerns all other classes as well. On the one hand, we have an uncertain state of many atomized individuals; on the other hand, we have multiple dangers coming from the power and targeting everyone. The uncertainty brought to us in the 1990s has to be overcame, people and groups have to find their identities. The capitalism is interested only in contunuing this situation where the most predatory ones can prolong their predatory practices and stay unseen, therefore it has no other way but to hide the true order of things. And the true order of things is frightening. There seemed to be quite many myths about the "logic of capitalism", for an example the one that the cheap labour force exploitation (like the children labour) was possible only in an early stage of capitalism, in a so-called "primary capital accumulation" phase. But look - now in a post-industrial society we again see sweatshops, child and women labor, guarantess diminishing, oppression growing. And the fact that it all takes place far from Europe doesn't make it lighter, on the opposite, this all comes back to Europe as precarity.
The elimination of social rights and working guarantees, the cancellation of all former people defense mechanisms is an agenda of a Russian "precarity". Taxes grow. Apartments, water and gas payments grow too. It might be curious, that even one writing activist from Tomsk recently decided to implant the word into Russian soil and suggested to call the poor working conditions in Russia "prekarnost'". "Precarnost'" in Russia concerns labour but it also concerns everything else, the very basic conditions of life. The main slogan of a first Russian Social Forum coming (April 16-17) is "No - to cancellation of social guarantees!", although all other key topics such as war, privatization, mass-media etc. are also present. Under it socialists and anarchists, trotskyists and ecologists, human rights defenders and working unions are gathering.
For the older people, protests come parallel to nostalgia about the good old secure Soviet. Of course, as uncertain is today's capitalist society, the same certain was the former Soviet society. I would say, it was too certain. As is known, Soviets was a state of social guarantees and welfare. Even in the memories of my generation who saw the very rest of it, it was firm like an ancient Egypt. All classes were stratified, everything was made clear; for the late Soviet dissidents, this offered a good opportunity for a so-called "internal immigration": having a primitive handy work and a regular salary, you could live without much problems and think about Eternity.
Once in the Moscow magazine "CompuTerra" a trialogue between Graham Seaman, Richard Barbrook and the editor Leonid Levkovich was published (therefore it's a text existing in Russian exclusively). The Information era prominent theorists trace origins of XXth century utopias and say, that Russians lived worse but they had better future: communism in 20 years! So the Western politicians had to explain their citizens that they have good future too, and that's why the CIA ordered Daniel Bell to invent his post-industrialist utopia. Russians had social programs and guaranteed income - so the Western politicians also had to proclaim the "welfare state". As soon as the Soviet Union ruined, there was no more need to proclaim this, and the Capitalism-the-wild came back.
As for Russia, there had never been any delusions that capitalism will bring any social guarantees. Some pro-democratic illusions did take place, that's true, but not pro-capitast. Liberal ideology (and especially the mostly beloved by our liberals Friedrich von Hayek) never promised social care or guarantees but advocated capitalist Effectiveness instead. In the times of perestroika Russia was in a deep depression about its former economy ineffectiveness, its technological lag, its socialist unmanagement, multiple disfunctionalities, excessive wastes of energy etc. The Union was stable, but not effective. That's why Gorbachev's principle number 3 (after "glasnost" and "perestroika") was "uskorenie", i.e. speeding up. That's also why the post-Soviet reformists started asking grants from IMF justifying it by rhetorics that they will teach us how to run the economy effectively.
But the people never expected any social or humanitarian benefits from capitalism and never had any delusions about its predatory nature. From the very beginning of privatization, from the very first bankruptcies and robberies they knew, capitalism is precarious.
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miércoles, 2 de enero de 2008
"SOBRE LA HOSPITALIDAD" por Jacques Derrida
Entrevista en Staccato, programa televisivo de France Culturel producido por Antoine Spire, del 19 de diciembre de 1997, traducción de Cristina de Peretti y Francisco Vidarte en DERRIDA, J., ¡Palabra!. Edición digital de Derrida en castellano.
Pregunta: -Emmanuel Lévinas ha contado mucho para usted. Usted ha publicado, por una parte, el discurso que pronunció durante su entierro y, por otra parte, un estudio sobre su obra, que se llama Adiós a Emmanuel Lévinas. Lo que resulta muy sorprendente en su relación con Lévinas es que éste es, ante todo, el filósofo del otro, alguien que dice que el otro seguirá siendo siempre otro y que, incluso aunque uno imagine al otro como uno mismo, aunque se imagine al otro igual que uno, siempre hay un residuo de alteridad que nunca se podrá rodear del todo. Ahora bien, para usted es un punto esencial...
J. D.: -El de Lévinas es un gran pensamiento del otro. He de decir, antes de tratar de contestar a su pregunta, que actualmente las palabras «otro», «respeto del otro», «apertura al otro», etc., empiezan a resultar un poco latosas. Hay algo que se torna mecánico en este uso moralizante de la palabra «otro» y, a veces, también hay, en la referencia a Lévinas, algo que resulta un poco mecánico, un poco fácil [y edificante] desde hace años. Me gustaría por consiguiente, en nombre de ese pensamiento difícil, protestar contra esa facilidad.
En nombre de un pensamiento del otro, es decir, de la irreductibilidad infinita del otro, Lévinas ha tratado de volver a pensar toda la tradición filosófica. Refiriéndose con una perseverancia, con una insistencia tenaz, a aquello que en el otro sigue siendo irreductible, es decir, infinitamente otro, ha cuestionado y desplazado lo que denomina la ontología. Rebautizó la ontología, a saber, un pensamiento que, en nombre del ser, como lo mismo, terminaba siempre reduciendo esa alteridad, desde Platón hasta Heidegger; asimismo contrapuso a esa ontología aquello que denominó a su manera la «metafísica» o la «filosofía primera», y esa reestructuración de la filosofía extrae todas sus consecuencias de la trascendencia infinita del otro. Desde este punto de vista, su relación con la historia de la filosofía era compleja porque, en cierto modo, a partir de una tradición judaica y de una reinterpretación de la fenomenología, hizo que la tradición se tambalease, al tiempo que marcó unos puntos de anclaje importantes: se opuso a la fenomenología pero refiriéndose a un determinado Platón que hablaba de «lo que está más allá del ser», conservando cierta fidelidad a Descartes, es decir, a la idea de infinito que precede en mí a toda finitud.
Lévinas tenía, pues, una relación de fidelidad infiel con la ontología, y esto ha convertido su pensamiento en una de las mayores sacudidas de nuestro tiempo. Se trata de un pensamiento que me ha acompañado durante toda mi vida adulta. Naturalmente, ha habido explicaciones, comienzos; quizás, si no desacuerdos, al menos desplazamientos que me han mantenido siempre en vilo.
Pr.: -¿Nos puede explicar cómo es que esa distancia infinita con el otro, ese no-saber irreductible acerca del otro, es para Lévinas un elemento de la amistad, de la hospitalidad y de la justicia?
J. D.: -Refiriéndonos al simple sentido común -por así decirlo-, no puede haber amistad, hospitalidad o justicia sino ahí donde, aunque sea incalculable, se tiene en cuenta la alteridad del otro, como alteridad -una vez más- infinita, absoluta, irreductible. Lévinas recuerda que el lenguaje, es decir, la referencia al otro, es en su esencia amistad y, hospitalidad. Y, por su parte, éstos no eran pensamientos fáciles: cuando hablaba de amistad y hospitalidad, no cedía a los «buenos sentimientos».
Pr.: -Dicho eso, el término de hospitalidad no es tan claro como parece, y usted mismo lo explica remontándose a su genealogía, sobre todo con los análisis de Benvéniste. Me da la impresión de que Lévinas trata de romper con una concepción posible de la hospitalidad, que lo vincula con la ipseidad, es decir, con la concepción de lo mismo, del sí mismo hospitalario que cobra poder sobre el otro.
J. D.: -La hospitalidad, en el uso que Lévinas hace de este término, no se reduce simplemente, aunque también lo sea, a la :acogida del extranjero en el hogar, en la propia casa de uno, en su nación, en su ciudad. Desde el momento en que me abro, doy, «acogida» -por retomar el término de Lévinas- a la alteridad del otro, ya estoy en una disposición hospitalaria. Incluso la guerra, el rechazo, la xenofobia implican que tengo que ver con el otro y que, por consiguiente, ya estoy abierto al otro. El cierre no es más que una reacción a una primera apertura. Desde este punto de vista, la hospitalidad es primera. Decir que es primera significa que incluso antes de ser yo mismo y quien soy, ipse, es preciso que la irrupción del otro haya instaurado esa relación conmigo mismo. Dicho de otro modo, no puedo tener relación conmigo mismo, con mi «estar en casa», más que en la medida en que la irrupción del otro ha precedido a mi propia ipseidad. Por eso, en la trayectoria de Lévinas que trato en cierto modo de reconstruir en ese librito se parte de un pensamiento de la acogida que es la actitud primera del yo ante el otro; de un pensamiento de la acogida a un pensamiento del rehén. Soy en cierto modo el rehén del otro, y esta situación de rehén en la que ya soy el invitado del otro al acoger al otro en mi casa, en la que soy en caza casa el invitado del otro, esta situación de rehén define mi propia responsabilidad. Cuando digo «heme aquí», soy responsable ante el otro, el «heme aquí» significa que ya soy presa del otro («presa» es una expresión de Lévinas). Se trata de una relación de tensión;. esta hospitalidad es cualquier cosa menos fácil y serena. Soy presa del otro, el rehén del otro, y la ética ha de fundarse en esa estructura de rehén.
Pr.: -Se comprende, al escucharle, lo que diferencia este pensamiento de un pensamiento de buenos sentimientos. Pero ¿acaso las palabras de respeto de la alteridad no dan cuenta mejor del pensamiento de Lévinas? Respeto de la alteridad en la medida en que la alteridad es siempre algo que está distanciado de mí.
J. D.: -Esa noción de respeto tiene una larga historia filosófica. Cuando Kant habla del respeto, habla del respeto de la ley, y no sólo del respeto del otro. El respeto de la persona humana no es para Kant sino un ejemplo; la persona humana no es sino un ejemplo de la ley que he de respetar. Para Lévinas la noción de respeto, antes de ser un mandamiento, describe la situación de distancia infinita de la que hablábamos: el respeto es la mirada, la mirada a distancia. Y, como sabe, Lévinas redefine a la persona, al yo y al otro como rostros. Lo que denomina el rostro, a la vez en la tradición judaica y según una nueva terminología, tiene derecho al respeto. Desde el momento en que estoy, en relación con el rostro del otro, en que hablo al otro y en que escucho al otro, la dimensión del respeto está abierta. Después resulta preciso, naturalmente, hacer que la ética esté en consonancia con esa situación y que resista a todas las violencias que consisten en reprimir el rostro, en ignorar el rostro o en reducir el respeto.
Pr.: -Hay otro término que usted analiza en esa obra sobre Lévinas: se trata del término «paz». Y el concepto de paz, a su vez, lo mismo que el de hospitalidad, es primero.
J. D.: -Digamos que para él la paz es primera, lo mismo que la hospitalidad y la amistad; es la estructura misma del lenguaje humano. Esto no excluye la guerra, y Lévinas parece aceptar que la guerra pueda tener lugar. Cuando opone el Estado de David al Estado de César, acepta dicha eventualidad. Está en relación de contradicción o de quiasmo con la posición kantiana: para Kant el estado originario de las relaciones entre los hombres, el estado natural, es una relación de guerra. Por eso, la paz debe ser una institución, debe ser construida como un conjunto de artificios, de proyectos culturales en cierto modo, propiamente políticos, para reducir esa hostilidad originaria.
En Lévinas ocurre en cierto modo lo contrario: se trata de dar gracias a una paz primera, de reconocer esa paz primera para tratar, a veces a través de la guerra, de tender hacia una paz en cierto modo escatológica. Es un gesto a la vez diferente del de Kant y, al mismo tiempo, análogo, ya que Kant también quiere, a través de la institución -las instituciones de paz universal, los tratados de paz universal por ejemplo-, recuperar una hospitalidad universal. Kant explica que, aunque haya un estado de guerra en la naturaleza, el derecho natural implica la hospitalidad universal: los hombres no pueden dispersarse de forma infinita sobre la superficie de la tierra y deben, por consiguiente, cohabitar. Y sobre la base de este derecho natural es sobre el que deben construirse las constituciones.
En ambos casos hay, pues, en el horizonte de la historia, una paz universal y perpetua. En este punto Kant y Lévinas, como ocurre a menudo, se vuelven a encontrar a través de los quiasmos.
Pr.: -Cuando. usted trabaja sobre lo político, lo hace con frecuencia para inquietar los conceptos tradicionales: pienso especialmente en el concepto de cosmopolitismo, o en el de tolerancia, que usted considera insatisfactorio y que, sin embargo, fue muy importante para la Ilustración, pero que hoy en día no basta; en el concepto de fraternidad, que también critica usted, dado que éste enfanga una determinada democracia por venir.
Me gustaría que nos hablase de esa forma de inquietar unos conceptos demasiado tradicionales.
J. D.: -Se trata, en efecto, de tres nudos esenciales. Por supuesto, invito a que haya más cosmopolitismo. El título ¡Cosmopolitas de todos los países..., un esfuerzo más!, que está jugando con Sade y con Marx, quiere decir que todavía no somos suficientemente cosmopolitas, que hay que abrir las fronteras; pero al mismo tiempo el cosmopolitismo no basta. La hospitalidad que estuviese simplemente regulada por el Estado, por la relación con unos ciudadanos en cuanto tales, no parece bastar. La prueba, la terrible experiencia de nuestro siglo, fue, sigue siendo, el desplazamiento de poblaciones masivas que ya no estaban constituidas por ciudadanos y para las cuales las legislaciones de los Estados-naciones no bastaban. Por consiguiente, habría que ajustar nuestra ética de la hospitalidad, nuestra política de la hospitalidad, al un más allá del Estado y, por lo tanto, habría que ir más allá del cosmopolitismo. En una lectura de Kant trato de señalar hasta qué punto el cosmopolitismo universal de Kant es algo notable hacia lo cual hay que tender, pero que también hay que saber transgredir.
En lo que concierne a la tolerancia; intenté mostrar, en una notita, hasta qué punto el concepto de tolerancia, por el cual siento el mayor respeto, naturalmente, como todo el mundo, estaba marcado en los textos que lo incorporan, por ejemplo en Voltaire, por una tradición cristiana. Se trata de un concepto cristiano, respetable en ese sentido, pero quizás insuficiente con vistas a la apertura o a la hospitalidad para con unas culturas o dentro de unos espacios que no estén simplemente dominados por un pensamiento cristiano. Lo mismo diría en lo que respecta a la fraternidad. Siento el mayor respeto por la fraternidad, es un gran motivo del lema republicano, a pesar de que, durante la revolución, surgieron muchos problemas para hacer que se aceptase la fraternidad, que se consideraba demasiado cristiana. En Políticas de la amistad he intentado mostrar hasta qué punto el concepto de fraternidad resultaba inquietante por varias razones: en primer lugar, porque enraíza con la familia, con la genealogía, con la autoctonía; en segundo lugar, porque se trata del concepto de fraternidad y no de sororidad, es decir, que subraya la hegemonía masculina. Por consiguiente, en la medida en que convoca a una solidaridad humana de hermanos y no de hermanas, debe inspirarnos algunas preguntas, no necesariamente una oposición. No tengo nada en contra de la fraternidad, pero me pregunto si un discurso dominado por el valor consensuado de fraternidad no arrastra consigo unas implicaciones sospechosas.
Pr.: -En su libro sobre la hospitalidad usted no deja de explicar que hay una ley incondicional de la hospitalidad ilimitada, pero cuando se hace entrar dicha hospitalidad ocasionalmente dentro de las leyes y de lo jurídico, por lo tanto, dentro del derecho, estamos dentro de algo limitado, en el orden de los derechos y de los deberes tradicionales. Ahora bien, entre las leyes que forzosamente imponen límites a la hospitalidad y la ley que es forzosamente ilimitada, hay que tratar de encontrar algo que dé juego y una manera de intervenir.
J. D.: -Ese «juego» es el lugar de la responsabilidad. A pesar de que la incondicionalidad de la hospitalidad debe ser infinita y, por consiguiente, heterogénea a las condiciones legislativas, políticas, etc., dicha heterogeneidad no significa una oposición. Para que esa hospitalidad incondicional se encarne, para que se torne efectiva, es preciso que se determine y que, por consiguiente, dé lugar a unas medidas prácticas, a una serie de condiciones y de leyes, y que la legislación condicional no olvide el imperativo de la hospitalidad al que se refiere. [Hay ahí heterogeneidad sin oposición, heterogeneidad e indisociabilidad.]
Por eso, es preciso que distingamos constantemente el problema de la hospitalidad en sentido estricto de los problemas de la inmigración, de los controles de los flujos migratorios: no se trata de la misma dimensión a pesar de que ambos sean inseparables. La invención política, la decisión y la responsabilidad políticas consisten en encontrar la mejor legislación o la menos mala. Ese es el acontecimiento que queda por inventar cada vez. Hay que inventar en una situación concreta, determinada, por ejemplo hoy en día en Francia, la mejor legislación para que la hospitalidad sea respetada de la mejor manera posible. Ahí es donde se instaura el debate político, parlamentario, entre todas las fuerzas sociales. No hay ningún criterio previo, ni ninguna norma preliminar; hay, que inventar sus normas. Ahí es donde se enfrentan hoy todas las fuerzas sociales y políticas en Francia para definir lo que cada uno considera que es la mejor norma.
Pr.: -;La justicia es inseparable. del derecho?
J. D.: -He intentado mostrar, en efecto, que la justicia era irrecluctible al derecho, que hay un exceso de la justicia en relación con el derecho, pero que, no obstante, la justicia exige, para ser concreta y efectiva, encarnarse en un derecho, en una legislación. Naturalmente, ningún derecho podrá resultar adecuado a la justicia y, por eso, hay una historia del derecho, por eso los derechos del hombre evolucionan, por eso hay una determinación interminable y una perfectibilidad sin fin de lo jurídico, precisamente porque la llamada de la justicia es infinita. [Una vez más, ahí, justicia y derecho son heterogéneos e indisociables. Se requieren el uno al otro.]
Pr.: -Usted aborda en varias ocasiones la cuestión de la lengua. Dice que lo mínimo es tener en cuenta la diferencia de lenguas que hay con el extranjero cuando se quiere hablar de la hospitalidad. Cuando se le lee a usted, primero de una forma muy sencilla, parece que sólo se trata de la cuestión de la lengua hablada y que habría que traducir esa lengua. De hecho, también se trata de la cuestión de los modelos culturales, de los tipos de intervención, de tomar en consideración un patrimonio diferente del nuestro. Escuchar al otro, por volver a Lévinas, en su totalidad, en su alteridad, es tener en cuenta su patrimonio en su total alteridad, incluida la alteridad lingüística.
J. D.: -Dramático problema. Acoger al otro en su lengua es tener en cuenta naturalmente su idioma, no pedirle que renuncie a su lengua y a todo lo que ésta encarna, es decir, unas normas, una cultura (lo que se denomina una cultura), unas costumbres, etc. La lengua es un cuerpo, no se le puede pedir que renuncie a eso... Se trata de una tradición, de una memoria, de nombres propios. Evidentemente, también resulta difícil pedirle hoy en día a un Estado-nación que renuncie a exigirles a aquellos a los que acoge que aprendan su lengua, su cultura en cierto modo.
Es el modelo integracionista que domina hoy día en Francia, por parte de la izquierda y de la derecha. Se dice que está bien acoger al extranjero, pero a condición de la integración, es decir, de que el extranjero, el inmigrante o el nuevo ciudadano francés reconozca los valores de laicidad, de república, de lengua francesa, de cultura francesa. Lo comprendo. La decisión justa ha de hallarse, una vez más, entre el exceso del modelo integracionista que desembocaría simplemente en borrar toda alteridad, en pedirle al otro que se olvide, desde el momento en que llega, de toda su memoria, de toda su lengua, de toda su cultura, y el modelo opuesto que consistiría en renunciar a exigir que el arribante aprenda nuestra lengua.
Por consiguiente, tanto en el terreno político como en el terreno de la traducción poética o filosófica, el acontecimiento que hay que inventar es un acontecimiento de traducción. No de traducción en la homogeneidad unívoca, sino en el encuentro de idiomas que concuerdan, que se aceptan sin renunciar en la mayor medida posible a su singularidad. En todo momento se trata de una elección difícil.
Publicado por DARÍO YANCÁN en 23:43 0 comentarios
''La fuerza dela cultura podrá evitar el choque de civilizaciones'' por Umberto Eco.
En el Libro de los Reyes 1,19, cuando Elías, que se encontraba en la gruta del Monte Horeb, fue llamado a la presencia del Señor, un fuerte viento sopló desde las montañas y quebró la roca. Sed non in vento Dominus, dice la Vulgata, pero el Señor no estaba en el viento. Después del viento llegó un tumulto de tierra y aire, mas non in commotione, non in commotione Dominus, el Señor no estaba en ese tumulto. Y después del tumulto llegó el fuego, mas non in igne Dominus, pero el Señor no estaba en el fuego. Me perdonarán si no cito la versión hebrea original, pero creo que el significado del episodio no cambia, y en todo caso así lo aprendí yo de niño y la historia dejó en mi alma una huella profunda.
No se puede encontrar a Dios en el ruido, Dios sólo se revela en el silencio. Dios no está nunca en los medios de comunicación, Dios no está nunca en la primera página de los periódicos, Dios no está nunca en la televisión, Dios no está nunca en Broadway. Él estaba en el alma de Elías, Dios estaba en Qumran, estaba en los monasterios benedictinos de la Edad Media, estaba en los guetos españoles donde los primeros cabalistas experimentaban las infinitas combinaciones de las letras de la Torá. Dios está donde no hay barullo. Esta máxima también es válida para quien no cree en Dios, pero cree que en alguna parte hay una Verdad que descubrir. La Verdad no se encuentra en el tumulto, sino más bien en una búsqueda silenciosa.
En el trasiego del mundo de hoy los lugares del silencio permanecen y siguen siendo las universidades. Sin embargo, son pocos los lugares en los que es posible la comparación racional entre diversas visiones del mundo, Nosotros, la gente de universidad, estamos llamados a librar sin armas letales una infinita batalla por el progreso del saber y de la compasión humana.
No soy tan ingenuo como para olvidar que el saber no trae automáticamente paz y piedad, porque ha ocurrido en la historia que hombres que amaban a Brahms o a Goethe han sido capaces de organizar campos de exterminio. Pero en un gran porcentaje, el progreso del saber todavía puede producir, debe producir, resultados, y para alcanzar estos objetivos debemos continuar nuestra misión, aunque a nuestro alrededor el mundo salte por los aires. No estamos encerrados en una torre de marfil. Trabajamos para todos nuestros hermanos más allá de los muros.
Los siglos antiguos, e incluso los modernos, han sido escenario del colonialismo, del racismo, de la intolerancia. Para el mundo occidental, la llamada responsabilidad del hombre blanco era considerar la civilización occidental y cristiana como la única posible, de aquí el derecho y la misión de convertir a todos aquellos que seguían un modelo cultural diferente; por no hablar de actitudes similares en el mundo no occidental, inspiradas por el odio a los europeos y a las distintas formas de fundamentalismo religioso.
Pero fue en el ambiente de las universidades y de las sociedades cultas occidentales donde el mundo moderno inventó este nuevo acercamiento a las culturas y las civilizaciones denominado antropología cultural. Gracias a los estudios de los antropólogos culturales del siglo XIX (pero siguiendo ideas ya sugeridas por Montaigne, Locke y la filosofía de la Ilustración) hemos sabido que existen otros modelos culturales orgánicos en sí mismos, que debían reconocerse, comprenderse en su lógica interna y respetarse.
La antropología cultural, al sustituir el concepto de raza por el de cultura, ha obrado en profundidad con el fin de hacernos más conscientes de la pluralidad de las culturas y del derecho de toda cultura a sobrevivir, siempre que su supervivencia no perjudique los derechos de los demás.
La antropología cultural no ha cambiado el mundo. Mientras que los antropólogos nos han enseñado a reconocer y respetar distintos comportamientos culturales, distintas religiones y costumbres étnicas, el mundo occidental ha producido los Protocolos de los Sabios de Sión, mientras que los primeros medios de comunicación, desde las novelas populares hasta las películas de Hollywood, alentaban una visión del Otro como un malvado, los feroces indios, el negro estúpido obligado a un destino de eterna esclavitud por su irremediable inferioridad, el diabólico doctor Fu Man Chu, y así sucesivamente.
Éste es exactamente el motivo por el que, hoy más que en el pasado, es deber de una sociedad culta utilizar todos los instrumentos que proporcionan los nuevos medios de comunicación para difundir las ideas de los primeros antropólogos culturales.
Hace diez años, François Mitterrand fundó en París, bajo la presidencia de Elie Wiesel, la Académie Universelle des Cultures, una institución que reúne a escritores, científicos, artistas y sobre todo universitarios de todo el mundo, entre ellos mi amigo Pet Ahlmark. El estatuto de la Academia dice que ésta "promoverá la investigación científica, encuentros y colaboraciones creativas y alentará cualquier contribución a la lucha contra la intolerancia, la xenofobia, la discriminación de las mujeres, el racismo y el antisemitismo" y que "se compromete a difundir sus propias ideas a través de los colegios, los medios de comunicación y los instrumentos futuros del saber".
Al aproximarse el tercer milenio, el mundo ha sido devastado por acontecimientos trágicos como la invasión de Kuwait, la guerra del Golfo, los terribles conflictos raciales en los Balcanes y aún ignorábamos lo que iba a ocurrir después, hasta la guerra de hoy contra el terrorismo. Al intentar entender qué se podría hacer para educar a los pueblos del mundo en una visión positiva de la diversidad cultural y étnica y en la tolerancia, nos hemos dado cuenta de que no servía convencer a una persona, digamos que de cuarenta años, un hombre o una mujer que en ese momento mataba, violaba o humillaba a quienes no pertenecían a su modelo cultural. Para ellos era ya demasiado tarde. Debíamos empezar por sus hijos.
Así, la Academia ha abierto un sitio en Internet, academie-universelle.org -en fase de organización- para proporcionar a los profesores y educadores de todo el mundo instrumentos intelectuales -ideas, ejemplos, ejercicios prácticos- con el fin de enseñar a los jóvenes que viven en contacto con personas de origen distinto que su recíproca diversidad no es un obstáculo para la vida en común, sino más bien una fuente de enriquecimiento mutuo.
Nosotros decimos que no nos volvemos iguales negando la existencia de las diversidades. Las diversidades existen y hay que reconocerlas. Empecemos por los rostros, los vestidos, incluso por la comida o el olor (digámosles que no hay nadie que no tenga olor, y que normalmente no advertimos el nuestro porque procede de nuestro cuerpo o de las personas que nos rodean, que tienden a comer más o menos las mismas cosas que comemos nosotros) y lleguemos a hablarles de diferencia de religión o de la forma de interpretar la territorialidad. Pidamos a los niños que descubran si en su zona habitan personas con bagajes culturales diferentes, que nos describan en qué se diferencian de ellos, pero también, dentro de su grupo de pertenencia, en qué se diferencian unos de otros. Digámosles que es normal que en un primer momento la diversidad de los otros no nos guste, pero que ser diferentes no significa ser malos. Nos hacemos malos cuando queremos impedir a los demás que sean diferentes. Digamos a los niños que las diferencias hacen del mundo un lugar interesante en el que vivir. Si no hubiese diferencias no podríamos entender siquiera quiénes somos: no podríamos decir "yo" porque no tendríamos un "tú" con el que compararnos.
Digamos que igualdad significa que cada uno tiene derecho a ser distinto a todos los demás.
Intentemos hablar a los niños de los estereotipos racistas, de la intolerancia, del prejuicio, de los guetos, de las favelas, del apartheid, de la deportación, del genocidio. Uno de los ejercicios que proponemos ya lo ha experimentado una educadora estadounidense que en su clase dividió a los chicos en dos grupos, los rojos y los azules. Durante la primera semana, la profesora no se ocupó en absoluto de los rojos, les negaba la palabra, no les alababa cuando hacían algo bien y les castigaba a la mínima equivocación. En cambio, fue indulgente hasta el exceso con los azules, alabándoles continuamente y perdonándoles cualquier comportamiento fuera de la norma. La semana siguiente invirtió las partes, favoreciendo a los rojos. De esta forma, los alumnos experimentaron tanto la sensación de poder como el sufrimiento y las frustraciones de pertenecer al grupo de los oprimidos y los excluidos. La enseñanza que hay que sacar es que si has sufrido como miembro de un grupo oprimido, debes hacer que en un futuro otros no padezcan tus mismos sufrimientos.
Nuestro sitio que no hace ruido es sólo un ejemplo, pero refuerza, espero y creo, mi idea de que sólo los centros de enseñanza, y entre ellos sobre todo la universidad, son todavía lugares de confrontación y discusión recíprocas, en los que podemos encontrar ideas mejores para un mundo mejor, como el refuerzo y la defensa de los valores universales fundamentales, que no hay que tener en las estanterías de una biblioteca, sino difundir con todos los medios posibles.
¡La universidad (e incluso la escuela elemental) como fuerza de paz! En mis sueños más osados veo la imagen de un ambiente académico en el que se puede hablar pacíficamente incluso de los problemas más insolubles de nuestro tiempo.
Qué imagen tan bella la de una universidad en la que en un futuro próximo pueblos diferentes puedan sentarse a resolver juntos los problemas de esta tierra santa y martirizada en una interacción fructífera y leal entre hombres de buena voluntad.
Nota
(1) El texto del escritor y semiólogo italiano Umberto Eco reproduce el discurso pronunciado en Jerusalén con motivo del doctorado honoris causa que le fue concedido por la Universidad Hebrea; discurso publicado por el diario El País, con fecha 12 de junio de 2002, y que consideramos de obligada difusión. En él se reflexiona sobre el valor de la cultura como sinónimo de concordia, y se presenta el ambiente académico como el foro más idóneo para facilitar el intercambio pacífico de puntos de vista encontrados, y para favorecer, así, la tolerancia.
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