Lo storico era nato a Rieti nel 1929 ma viveva da sempre nella capitale. Una lunga malattia non gli consentì di concludere l'opera fondamentale, quel Mussolini in otto volumi pubblicato da Einaudi a partire dal 1965, il cui ultimo tomo, dedicato alla Resistenza e a Salò, avrebbe visto la luce postumo, trentuno anni più tardi. In verità l'opera di De Felice è stata tanto ampia quanto significativo è stato il suo contributo sul come fare ricerca. Non vanno trascurati ad esempio i primi saggi sul Settecento né i lavori metodologici come Le interpretazioni del fascismo (1969) né ancora i libri-intervista, da ultimo Rosso e nero (1995), tanto brevi quanto piccanti e ricchi di spunti.Sarà il tempo il vero giudice della storiografia defeliciana con la quale tutta la contemporaneistica resterà a lungo debitrice. De Felice abitava con la moglie Livia De Ruggiero in via Antonio Cesari 8, nel quartiere di Monteverde vecchio, presso il parco di Villa Doria Pamphili. In via Cesari trovavano posto anche l'archivio privato e lo studio dove egli era solito ricevere amici, ricercatori e studenti. Questo avveniva con spirito di grande affidabilità e cortesia - a volte in vestaglia da camera e con l'immancabile toscano tra le dita - indipendentemente dall'ospite. Allo studioso piaceva parlare e confidare la ricchezza delle proprie ricerche e delle esperienze vissute sul campo, a contatto diretto con le fonti.
Ecco cosa dichiarava nella sua ultima intervista.
Professor De Felice, lei nell'«Intervista sul fascismo» ha raccomandato l'uso del termine "maestro" con molta discrezione ma (...) chi ritiene abbia avuto maggiori influenza sui suoi studi?
«Due sono le persone che hanno, in tempi diversi, avuto una effettiva influenza; e quando dico in due tempi diversi è un fatto temporale, non che con questo il secondo sostituisca il primo. Delio Cantimori, il quale muore relativamente presto e Rosario Romeo. Questo io direi come problema mio. Poi altri che hanno avuto influenza: per certe cose Chabod, col quale imi laureai (...)».
In che cosa fu influenzato da Chabod?
«Da un suo certo modo di porsi di fronte alla realtà storica. Pensi ad esempio a
Le interpretazioni del fascismo. Il riguardo dato a Federico Chabod autore del saggio Croce storico ma anche quella di chiacchierate sia seminariali a Napoli, sia private, quando veniva a parlare con noi studenti, allievi dell'Istitutivo Croce, nelle ore dedicate allo studio e alla lettura (...)».
Chi erano all'epoca i suoi colleghi?
«Di stranieri c'era Alain Dufour, direttore e padrone delle Edizioni Droz di Ginevra, di italiani c'era Giovanni Busino che insegna a Losanna e cura l'Archivio Pareto; c'era Piero Melograni, Luigi Tassinari, Aldo Zanardo il filosofo, c'era Roberto Zapperi e Giuliano Rendi, laureato a Roma con Carlo Antoni, che si occupava di Ilerder ed in genere del problema del razzismo nella cultura tedesca (...)».
Quali furono la facoltà e la laurea?
«Mi laureai con Federico Chabod, in Storia moderna, con una tesi sul pensiero politico dei giacobini romani. Ed ero iscritto in Filosofia (...) scelta a dire il vero un po' complessa. Perché da un lato è l'influenza del momento, di un certo tipo di atmosfera culturale, di suggestioni... marxiste. Da un lato però fu un fatto pratico e strumentale. (...) Allora l'Università era cosa ben diversa da quella di oggi. Per esempio l'esame di latino con Ettore Paratore, scritto e orale, era una cosa che uccideva! I filosofi facevano solo la prova orale e questa era un tantino ridotta (...)».
Esiste una scuola di Renzo De Felice?
«Non so se esiste e se esiste perché taluni hanno trovato utile ed interessante, o almeno stimolante, certo tipo di discorso storiografico. Io non ho mai perseguito la costruzione di una scuola. Mi sono
passate per le mani, diciamo così, delle persone molto strane... intendo per formazione. Se una scuola c'è stata (...) forse è avvenuto nel pieno della contestazione. Per esempio la Silvia Costa non riusciva ad avere una tesi sul Partito Popolare, giudicata da alcuni una perdita di tempo. Cretinerie. E così, come per altri, ottenne la tesi sperata. Altri casi li sperimentammo insieme Rosario Romeo ed io: ci si presenta Adriano Romualdi a cui nessuno voleva concedere la tesi. Noi lo ritenemmo uno studente come tutti gli altri. Il giorno che fosse stato condannato per qualche emotivo se ne sarebbe potuto parlare in certi termini».
«Era però suo diritto laurearsi come avrebbero fatto altri, col consenso della legge, seppure in un secondo tempo, reclusi a Rebibbia. E così si laureò con me e con Romeo (...). Io - vedasi la collezione di "Storia contemporanea" - ho sempre evitato di dare una immagine ideologico-politica stabile. Io ho sempre detto,
purché non siano follie ma cose fatte seriamente, a me vanno bene. Sono disposto ad accettare il discorso anche più folle in apparenza - basta che mi dimostriate che non è folle - e quindi a pubblicarlo (...)».
Da cosa nasce l'impegno per una storiografia del fascismo locale?
«Degli studi di storia locale è evidente che vi è già traccia in certe cose cui io accenno nella
Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961) e poi ancora dopo. Questo blocco del fascismo come entità omogenea è una cosa che fin dall'inizio non mi ha convinto (...). Già dai tempi del mio primo incarico a Roma, poi quando sono andato a Salerno, ho tenuto conto che lo studente della provincia non ritengo debba essere obbligato, a meno che non voglia, a svolgere argomenti di tesi che lo costringano a spostarsi. Io stesso cerco studenti che abbiano chiaro ciò che intendono fare. Ma molti chiedono «una tesi». (...) Già a Salerno feci fare molte tesi sull'Italia meridionale, Campania, Lucania, Abruzzo. Preciso che a mio avviso si può risolvere tutto nella storia locale. Perché trenta Camere del lavoro o Fasci, studiati singolarmente, non offrono altro che un quarto ripetitivo, alla fine insufficiente (...)».
Cosa pensa del «revisionismo storiografico»?
«Non le voglio rispondere con una battuta che ogni tanto si era soliti ribattere, che cioè ciascun lavoro storico è revisionismo. Qui si tratta di intendersi. Faurisson, Nolte, un caro amico come Sternhell, De Felice sono dei revisionisti. Ma sa, il primo è una cosa; Nolte un'altra cosa, io stesso un'altra ancora (...). Questo revisionismo unico ed indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha fondamento e concretamente lo si può vedere confrontando quelli, mi lasci dire, più significativi (...)».
GIÒ MURRU
Lo storico era nato a Rieti nel 1929 ma viveva da sempre nella capitale. Una lunga malattia non gli consentì di concludere l'opera fondamentale, quel Mussolini in otto volumi pubblicato da Einaudi a partire dal 1965, il cui ultimo tomo, dedicato alla Resistenza e a Salò, avrebbe visto la luce postumo, trentuno anni più tardi. In verità l'opera di De Felice è stata tanto ampia quanto significativo è stato il suo contributo sul come fare ricerca. Non vanno trascurati ad esempio i primi saggi sul Settecento né i lavori metodologici come Le interpretazioni del fascismo (1969) né ancora i libri-intervista, da ultimo Rosso e nero (1995), tanto brevi quanto piccanti e ricchi di spunti.Sarà il tempo il vero giudice della storiografia defeliciana con la quale tutta la contemporaneistica resterà a lungo debitrice. De Felice abitava con la moglie Livia De Ruggiero in via Antonio Cesari 8, nel quartiere di Monteverde vecchio, presso il parco di Villa Doria Pamphili. In via Cesari trovavano posto anche l'archivio privato e lo studio dove egli era solito ricevere amici, ricercatori e studenti. Questo avveniva con spirito di grande affidabilità e cortesia - a volte in vestaglia da camera e con l'immancabile toscano tra le dita - indipendentemente dall'ospite. Allo studioso piaceva parlare e confidare la ricchezza delle proprie ricerche e delle esperienze vissute sul campo, a contatto diretto con le fonti.
Ecco cosa dichiarava nella sua ultima intervista.
Professor De Felice, lei nell'«Intervista sul fascismo» ha raccomandato l'uso del termine "maestro" con molta discrezione ma (...) chi ritiene abbia avuto maggiori influenza sui suoi studi?
«Due sono le persone che hanno, in tempi diversi, avuto una effettiva influenza; e quando dico in due tempi diversi è un fatto temporale, non che con questo il secondo sostituisca il primo. Delio Cantimori, il quale muore relativamente presto e Rosario Romeo. Questo io direi come problema mio. Poi altri che hanno avuto influenza: per certe cose Chabod, col quale imi laureai (...)».
In che cosa fu influenzato da Chabod?
«Da un suo certo modo di porsi di fronte alla realtà storica. Pensi ad esempio a
Le interpretazioni del fascismo. Il riguardo dato a Federico Chabod autore del saggio Croce storico ma anche quella di chiacchierate sia seminariali a Napoli, sia private, quando veniva a parlare con noi studenti, allievi dell'Istitutivo Croce, nelle ore dedicate allo studio e alla lettura (...)».
Chi erano all'epoca i suoi colleghi?
«Di stranieri c'era Alain Dufour, direttore e padrone delle Edizioni Droz di Ginevra, di italiani c'era Giovanni Busino che insegna a Losanna e cura l'Archivio Pareto; c'era Piero Melograni, Luigi Tassinari, Aldo Zanardo il filosofo, c'era Roberto Zapperi e Giuliano Rendi, laureato a Roma con Carlo Antoni, che si occupava di Ilerder ed in genere del problema del razzismo nella cultura tedesca (...)».
Quali furono la facoltà e la laurea?
«Mi laureai con Federico Chabod, in Storia moderna, con una tesi sul pensiero politico dei giacobini romani. Ed ero iscritto in Filosofia (...) scelta a dire il vero un po' complessa. Perché da un lato è l'influenza del momento, di un certo tipo di atmosfera culturale, di suggestioni... marxiste. Da un lato però fu un fatto pratico e strumentale. (...) Allora l'Università era cosa ben diversa da quella di oggi. Per esempio l'esame di latino con Ettore Paratore, scritto e orale, era una cosa che uccideva! I filosofi facevano solo la prova orale e questa era un tantino ridotta (...)».
Esiste una scuola di Renzo De Felice?
«Non so se esiste e se esiste perché taluni hanno trovato utile ed interessante, o almeno stimolante, certo tipo di discorso storiografico. Io non ho mai perseguito la costruzione di una scuola. Mi sono
passate per le mani, diciamo così, delle persone molto strane... intendo per formazione. Se una scuola c'è stata (...) forse è avvenuto nel pieno della contestazione. Per esempio la Silvia Costa non riusciva ad avere una tesi sul Partito Popolare, giudicata da alcuni una perdita di tempo. Cretinerie. E così, come per altri, ottenne la tesi sperata. Altri casi li sperimentammo insieme Rosario Romeo ed io: ci si presenta Adriano Romualdi a cui nessuno voleva concedere la tesi. Noi lo ritenemmo uno studente come tutti gli altri. Il giorno che fosse stato condannato per qualche emotivo se ne sarebbe potuto parlare in certi termini».
«Era però suo diritto laurearsi come avrebbero fatto altri, col consenso della legge, seppure in un secondo tempo, reclusi a Rebibbia. E così si laureò con me e con Romeo (...). Io - vedasi la collezione di "Storia contemporanea" - ho sempre evitato di dare una immagine ideologico-politica stabile. Io ho sempre detto,
purché non siano follie ma cose fatte seriamente, a me vanno bene. Sono disposto ad accettare il discorso anche più folle in apparenza - basta che mi dimostriate che non è folle - e quindi a pubblicarlo (...)».
Da cosa nasce l'impegno per una storiografia del fascismo locale?
«Degli studi di storia locale è evidente che vi è già traccia in certe cose cui io accenno nella
Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961) e poi ancora dopo. Questo blocco del fascismo come entità omogenea è una cosa che fin dall'inizio non mi ha convinto (...). Già dai tempi del mio primo incarico a Roma, poi quando sono andato a Salerno, ho tenuto conto che lo studente della provincia non ritengo debba essere obbligato, a meno che non voglia, a svolgere argomenti di tesi che lo costringano a spostarsi. Io stesso cerco studenti che abbiano chiaro ciò che intendono fare. Ma molti chiedono «una tesi». (...) Già a Salerno feci fare molte tesi sull'Italia meridionale, Campania, Lucania, Abruzzo. Preciso che a mio avviso si può risolvere tutto nella storia locale. Perché trenta Camere del lavoro o Fasci, studiati singolarmente, non offrono altro che un quarto ripetitivo, alla fine insufficiente (...)».
Cosa pensa del «revisionismo storiografico»?
«Non le voglio rispondere con una battuta che ogni tanto si era soliti ribattere, che cioè ciascun lavoro storico è revisionismo. Qui si tratta di intendersi. Faurisson, Nolte, un caro amico come Sternhell, De Felice sono dei revisionisti. Ma sa, il primo è una cosa; Nolte un'altra cosa, io stesso un'altra ancora (...). Questo revisionismo unico ed indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha fondamento e concretamente lo si può vedere confrontando quelli, mi lasci dire, più significativi (...)».
GIÒ MURRU
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